12
Agosto
2020
IL RAGAZZO CON LA PIPA
@Alessandro Toniolli

Alessandro nasce e cresce nella terra fertile e nebbiosa della campagna reatina.
Poi il liceo, il servizio militare, l’università.
Tornare a Casa.
Ed è uomo adulto, padre.
“Io non so inventare storie, ma mi piace raccontarle”
È così che attacca a narrare, ogni domenica; a passo lento e linguaggio che insegue un orizzonte lontano, da raggiungere lungo tutta la vita, così come fanno gli uomini di mare.
Alessandro scrive già, per mestiere di notizie.
Scrive già, e chiude in un cassetto.
Da un po’, di domenica, scrive storie che appartengono alla sua memoria e alla storia di tutti noi, ed è già un appuntamento fisso su pagine condivise.
Sono storie salvate.
Le accogliamo qua.
28 GIUGNO 2020
Io non so inventare storie, ma mi piace raccontarle.
Questa è quella di quando Mike Tyson ha vendicato Muhammad Ali. Non è una storia di pugni e di sangue, non solo almeno, ma di uomini. Il 2 ottobre 1980 Muhammad Ali ha trentotto anni nove mesi e quindici giorni e non vuole smettere di combattere. È ricco, è un riferimento per la comunità afroamericana ed è sempre stato, già da prima del suo primo incontro, il pugile più forte di tutti i tempi. Ma è malato. Si parla di diagnosi nascoste, di certificati falsi. Ali sa di non stare bene. Lo sente. Avverte dei formicolii, e lui che aveva la testa e la parola veloci quanto se non più delle gambe e delle braccia, comincia a perdere colpi. Il pensiero è fulmineo come sempre, ma quando deve passare dalla bocca qualcosa si inceppa. Però non può smettere di combattere. Non può farlo. Così quella sera deve affrontare il campione del mondo Larry Holmes, trentun anni e all’apice della forma e della sua carriera. È stato il suo sparring partner, ma ora è il campione. È il momento: Ali porta in scena il suo personaggio e ci si infila perfettamente, ma nei suoi occhi si legge che questa volta sta recitando. Sia chiaro, è ancora un istrione. Lo è sempre stato. Ma ora deve esserlo, per forza. Anche fingendo. Non ha paura perché sa già a cosa va incontro, lo sa benissimo. Combatte la morte dandosi la morte pur di sentirsi ancora vivo per qualche istante. Il suo sguardo spiritato, solo per un attimo, vede la realtà. Poi torna di nuovo nel suo ruolo. Quello che gli spetta. Questo prima del gong il cui suono è come la campanella a scuola: finisce la fantasia e c’è solo la realtà. Per qualche frazione di secondo compie alcuni movimenti che gli ricordano quando si sentiva vivo. Ed è per questo che è là sopra. Su quel ring. Per sentirsi vivo anche solo per un secondo, anche se tutto il resto sarà dolore e le conseguenze lunghe negli anni. Muhammed Ali è forse il più grande intellettuale del novecento e tutto questo lo sa, non può non saperlo. Questa è una storia, non è una favola e allora Holmes picchia Ali quasi ininterrottamente per 10 lunghe riprese, vincendole tutte. Dieci riprese, trenta minuti di combattimento. Un’eternità. Un momento di dolore e di lotta per la sopravvivenza con la disperata speranza di quell’istante istante che ti faccia sentire ancora vivo. Durante l’incontro non si lega quasi mai all’avversario. Non vuole evitarsi nulla. Non è vincere o perdere. Ali è frastornato, è rallentato, sarà anche malato ma è Muhammad Ali e resta in piedi fino a che il suo allenatore non getta la spugna, perché non voleva finisse ancora. Forse voleva non finisse mai. Desiderare quel che non si può avere comporta soffrire. Ali sapeva che seguire la sua natura l’avrebbe condotto ad una punizione, la prese e la accettò, con la guardia alta e lo sguardo rassegnato. Ma in piedi, per prenderla tutta.

Michael Gerard Tyson nasce a Brooklyn il 30 giugno 1966 ed è forte. È forte e ama i piccioni. Li alleva, ci parla e quando ha dieci anni Gary Flowers tenta di rubargliene uno, ma per errore lo uccide. E allora Mike lo stende. Inizia a picchiare Gary Flowers per un piccione morto e non smette più. Picchia, poi ruba, picchia ancora e finisce in riformatorio. Molte volte. Là dentro incontra Mohamed Ali, in visita ai ragazzi dell’istituto. Il 22 gennaio 1988 Mike Tyson ha 21 anni, è campione del mondo ed è considerato da alcuni il pugile più potente di sempre, Larry Holmes ha 38 anni ma è convinto di poterlo battere con facilità. Almeno così dice. Mike ha una forza impressionante, vince quasi tutti i suoi incontri entro le prime tre riprese, ma non ha un padre. Ne aveva avuti quasi due, ma erano andati via troppo presto. Lasciandolo solo. Prima dell’incontro Mike ha una postura composta quando viene invitato a salire sul ring Muhammad Ali. Ali indossa occhiali da sole neri che nascondono gli occhi, un vestito sartoriale ed è elegante anche nel suo passo e nei suoi gesti incerti. Mike è composto e lo guarda poco anche se si avverte il suo rispetto. Forse sta pensando che è proprio così che avrebbe voluto un padre. Il migliore di tutti. E quell’uomo molto più alto davanti a lui aveva colpito quello che avrebbe voluto fosse suo padre tante e tante volte qualche anno prima. Forse Holmes a quel tempo già sapeva che Ali stava male. Ma Ali aveva scelto che il suo destino ed il suo castigo dovevano passare per le mani di Holmes, che non era un uomo cattivo. Ma Mike lo avrebbe battuto per lui. Nei pochi passi che compie sul ring andando verso Mike, Ali è di nuovo bello, forte e rassicurante. Si avvicina al suo orecchio sussurrando: “distruggilo Mike”. E quel ragazzo che amava i piccioni lo farà con la sua rabbia, la sua forza, il suo stile. Ma quasi cercando di restare ancora composto davanti a quell’uomo che da bordo ring lo guarda. Dietro quegli occhiali neri lo sguardo deve essere buono. Alla quarta ripresa Holmes va a terra tre volte. KO tecnico. È stato bravo Mike. Forse Ali sarà orgoglioso. Lui che non ha mai smesso di combattere e cercare attimi di vita, anche se dicono sia morto il 3 giugno 2016. Mike Tyson non ha mai smesso di amare i piccioni e di finire nei guai. Holmes partecipa ai talk show.
5 luglio 2020
Io non so inventare storie, ma mi piace raccontarle.

Ho sempre desiderato essere un cattocomunista. Non lo sono. Purtroppo la vocazione cattolica è sparita troppo presto. Quanto a quella comunista, serbo ancora un po’ di rancore verso Achille Occhetto. Sia chiaro, lungi da me criticare l’evoluzione del pensiero socialista ed il travaglio di un suo così alto esponente, ma un anno avrebbe potuto aspettarlo. Io invece ho compiuto 16 anni, età minima per tesserarsi alle organizzazioni politiche giovanili, l’anno dopo la Svolta della Bolognina. Tutto quello che è seguito, anche col nome comunista, non vale. Il Partito Comunista Italiano muore il 3 febbraio 1991. Quindi, non posso definirmi cattocomunista. Ma io un cattocomunista lo ho conosciuto. E lo ho conosciuto bene. Figlio di una numerosa famiglia proletaria del quartiere. Erano tanti. Tanti che quanti di preciso non so dire. Ricordo benissimo la madre, da sempre magra e anziana. A me bambino sembrava molto anziana, forse non lo sarà sempre stata, ma nella memoria è fissata così. Con i polpacci fini fini quando pedalava la bicicletta. Il padre lo ricordo meno, ma anche lui magro e anziano. Tutti comunisti. Comunisti come solo in Emilia. Perché in Emilia si era comunisti per ragione, amore e nascita. Anche da noi, per pochi eletti, era così. Ricordo la loro casa, ricordo perfettamente quell’odore di dignità e ristrettezze. Non ricordo niente di superfluo in giro. Non un giocattolo, nonostante due bambini e gli altri che lo saranno pure stati. Il cattocomunista era il più attivo in sezione ed il più attivo in parrocchia. Muratore, con le sue mani montava praticamente da solo la Festa de L’Unità come quella del patrono. Suonava ad ogni casa della grande campagna, anche la più isolata, per portare il giornale del Partito ed il prete a benedire. Per la campagna elettorale come per la raccolta della parrocchia. Bussava sempre lui ed suo sorriso. E tutti lo facevano entrare. Anche i fascisti. Se ricordo bene tre famiglie in tutta la pianura tra cui mio nonno. Ma con loro niente politica, solo parrocchia. Per quanto completamente e sinceramente credente nelle proprie convinzioni, tutte custodite con la stessa sacralità, era impossibile immaginarlo in una contrapposizione. Nemico solo di qualunque forma di vizio. Nemico del fumare, del bere, della lussuria, che però contrastava con tale grazia da non offendere mai chi li praticava. E naturalmente da non redimere nessuno. Quello forse era un cruccio, ma sentire di avere offeso l’animo di qualcuno sarebbe stato uno più grosso. E forse per questo, se lo faceva andare bene così. Lui era solo amore incondizionato e servente. Spesso mi sono interrogato, stupido e arrogante, sul suo mettersi a servizio. Perché non voleva essere lui segretario del Partito? Perché non voleva essere lui il prete o il vescovo? Ci sono voluti anni, e parecchi peli bianchi nella barba, per capire quanto alto potesse essere il suo senso di essere al servizio delle due istanze superiori per definizione: il comunismo e l’amore di Dio. Essere al servizio in quella sua altissima accezione oggi mi appare chiaramente in tutta la sua magnificenza. Io stupido e arrogante non capivo quello, come non potevo comprendere la sua assoluta serenità. La serenità di due fedi che portavano indiscutibilmente alla salvezza.
12 luglio 2020
Io non so inventare storie, ma mi piace raccontarle.
Marco era un grande cantante, un intellettuale raffinato e faceva traslochi. Quando lo ho conosciuto io era già stato molte altre cose. Note e whisky. Sudore e vino frizzante del bar. Tutto con una innata eleganza . Cosmopolita e di paese. Conosceva il mondo senza averlo visto, come Emilio Salgari e Antonio Ligabue. E aveva un senso dell’ironia che faceva luce. Falegnameria Santarelli e Alexanderplatz. Una tristezza ben celata. Marco con la sua camicia e Marco con la maglietta di Umbria Jazz 88. Marco e una maglia rossa. I zazarazaz del Bartali di Paolo Conte, il re della cantina di Vinicio Capossela ed i gorgheggi di Lucio Dalla. Chi conosceva il musicista ignorava quello che montava i mobili. Chi conosceva l’intellettuale ignorava il lavoratore. Molti gli ignari della strabiliante visione d’insieme. Un uomo ed un artista che era rivoluzione ed arte in sé. Un romanzo non scritto che usciva di casa ogni mattina con la sua Fiat Uno per tornare solo a notte fonda. Quando non di nuovo all’alba. Io Marco lo ho conosciuto e lo ho ammirato e gli ho voluto bene. Forse c’era una intesa naturale tra di noi. O forse mi piace pensarlo. Mi piace sapere e ricordare che insieme e insieme ad amici veri bevemmo una bottiglia di Sassicaia. Era il regalo di una donna che non era più importante e non faceva più male. Ma berla quella sera sì che è stato importante. Ed i sorrisi di Marco bagnati di quel rosso un regalo infinito. E sigari riserva. Poco dopo è andato via. È andato portando via tanto. Note, poesia, sorriso, notti, bevute. Un altro trasloco, l’ultimo. Forse. Ha lasciato una storia che magari si racconta ancora. In qualche bar di periferia ed in qualche locale jazz. Noi non ne parliamo. Se ci scappa il suo nome, facciamo un sorriso amaro e in silenzio buttiamo giù un sorso. È un brindisi a lui e pure questo non ce lo diciamo.

Foto di @Emiliano Grillotti
Festa del Sole 2011, concerto di chiusura di Marco Paolini ed i Mocambo. Una cosa che facemmo insieme.
Maurizio Santarelli c’è sempre stato.
19 luglio 2020
Io non so inventare storie, ma mi piace raccontarle.

L’Adriatico è un mare idraulico, intelligente ed operaio. È il mare della gente delle pianure e di quella dell’Appennino. È il mare di chi non sa cosa sia il mare e di quelli che sono nati e vivono con la pelle salmastra. È il mare dei grandi pescatori e di quelli con la canna sui pochi scogli e nei porti. È l’estate di noi tutti bambini. Dei miei Mondiali dell’82. Dei padri che arrivano il fine settimana. Del mio che arriva con una biciclettina rossa nel portabagagli dell’ Alfasud. Delle mamme che erano giovani, belle e formose. Sono figlio unico e sono stato un bambino piuttosto solitario. Inventavo per me storie fantastiche di cow boy, falegnami, marinai ed altro. Forse per questo ora non ne ho più. Devo averle finite. Mi incanta ancora molto di quello che vedo o che ho visto e ricordo, allora mi viene di scriverlo. Scrivendo, ora soprattutto, cerco di fuggire la paura che queste storie, come altro è successo e fa ancora male, possano fuggire anche loro. Mi illudo di fermarle, di tenerle con me. Forse da sempre cerco un antidoto al sentirmi solo. E mi illudo di comprendere meglio ciò che ho intorno, sapendo che non è vero. E questo magari è un bene: se comprendessi potrebbe svanire l’incanto e la voglia di capire. La vita in fondo è lunga ed in qualche modo bisogna pure impiegarla. Di quelle stagioni finite troppo velocemente ricordo alcune cose: I treni per Tozeur di Franco Battiato cantata insieme ad Alice, il bar dello stabilimento balneare dipinto di celeste, il profumo della mia colazione consumata in una tazza di plastica. Oggi mi piacciono le persone che affollano d’estate quella costa lunga e sempre uguale, quelli in canotta con la pancetta, ma anche i novelli vitelloni palestrati e tatuati. Le ragazze in perizoma e le signore anziane. Una umanità che con naturalezza abita questi luoghi senza sentirsi giudicata dal piano di sopra, come in una qualsiasi Capalbio che ha perso questo amore e questa empatia. Io a loro voglio bene e non è indulgenza, ma il riconoscersi in una semplicità che rimane tra le poche cose che al mio grosso naso ancora profumano di buono. Mi illudo di avere accanto, seduti su sdraio colorate, Federico Fellini e Pier Paolo Pasolini e che in silenzio tra gli schiamazzi anche loro si trovino a volere bene a questi luoghi ed a queste persone, che poi siamo noi, quello che siamo stati, quello che saremo. Perché non innamorarsi mai è quanto di più borghese si possa immaginare.
26 luglio 2020
Io non so inventare storie, ma mi piace raccontarle.
La storia si incrocia con le storie delle nostre famiglie, perché in fondo è vero che la facciamo noi.
Cesare Battisti classe 1875 fu un socialista, patriota ed irredentista. Luigi Toniolli classe 1889 coltivava le viti per la cantina sociale di Mezzocorona. Facce e storie di quasi un paio di secoli fa. Uno è morto impiccato, l’altro lontano dalla terra che aveva difeso. Le loro strade si incrociano nel Quinto Reggimento alpini, combattevano per Trento e per l’Italia contro gli austriaci. Pare che il 10 luglio 1916 sul Monte Corno fossero insieme ma Luigi ed altri militari di truppa siano riusciti a scampare alla cattura, Battisti no, di certo non erano loro l’obiettivo principale. Sicuramente invece Luigi ed i suoi compagni il 12 luglio 1916 erano nascosti in un sottotetto a Trento, guardavano verso il castello del Buonconsiglio ed hanno visto. Hanno visto il loro tenente arrivare su un carro tra le urla di scherno e le offese della folla. Hanno visto il boia Lang mettere il laccio al collo di Battisti e lo hanno sentito urlare forte per l’ultima volta “Viva Trento Italiana! Viva l’Italia!”. Hanno poi visto il laccio rompersi ed il boia impiccarlo di nuovo, facendo peso con il proprio corpo per portare a termine l’esecuzione. Si usava così.
Un pezzo di storia a cui ho pensato molto recentemente. Non so se le storie abbiano una morale, se ognuno ne possa trarre una propria. Si dice che la storia dovrebbe essere maestra, addestrare a non ripetere errori già commessi e già pagati. Una cosa come le botte ai cuccioli col giornale, ma più dolorosa. Io resto propenso al dubbio, e la situazione è aggravata da un certo pessimismo che non conoscevo e che pare aumentare come le candeline sulla torta. Forse si impara qualcosa, forse no. Forse si progredisce, forse no.
Luigi comunque ha vinto la sua guerra e non porta rancore, anzi suo figlio Rodolfo gli ha portato in casa una sud tirolese. Adelaide Zelger è nata a Klausen in Val D’Isarco e dopo la guerra la sua famiglia si è trasferita in Austria. Quando ha parlato loro di Rodolfo si è sentita dire “ma ti sposi un italiano?”. In tedesco, l’unica lingua che parlano. Ma loro si amano e comunque adesso il problema di Luigi è un altro. In Trentino c’è poco lavoro. La paga dei mesi in vigna non basta alla famiglia. Il Trentino ed il Veneto sono regioni povere. Vi basterebbe chiedervi perché tanti cognomi veneti nell’agro pontino. O perché nei film in bianco e nero le “ragazze di servizio” hanno sempre accento veneto. Da lì si va via a cercare un futuro migliore. Luigi e la sua famiglia lo cercano in provincia di Rieti. L’occasione è la costruzione delle dighe. La valle del Salto non è la sua valle e Luigi vuole guadagnare abbastanza per tornare a casa sua. E nel frattempo non acquisisce usi e costumi: mangia a modo suo, veste a modo suo ed ha l’aquila a due teste tatuata sull’avambraccio. Ora immaginate l’accoglienza ad uno coi pantaloni alla zuava ed il cappello con la penna all’osteria di Casa Penta. Pare siano stati necessari mesi e qualche cazzotto ben assestato per guadagnare il diritto ad un litro in pace ed in seguito anche qualche amicizia. Luigi è un socialista, patriota ed irredentista. Ed è un emigrante che vuole tornare nella terra per cui ha combattuto. Gli mandano la grappa dal paese ed è morto a Rieti nel 1970.

Nella foto c’è Luigi a Grotti, Rieti. In braccio mio padre, per mano mia zia. Era il 1940. Mio nonno Rodolfo era in guerra e Adelaide lo aspettava. Anche suo fratello Umberto era al fronte, non è mai tornato. A dire il vero non si sa dove, se e quando sia morto. Pare che l’8 settembre del 1943 in Montenegro si sia rifiutato di consegnarsi ai tedeschi. Ma queste sono altre storie.
2 agosto 2020
Io non so inventare storie, ma mi piace raccontarle.
Questa è la storia di un aereo, della nostra montagna, di Vincenzo Curini e di miss Italia. L’aereo è un Douglas DC 6 Sabena, la nostra montagna è quella dietro cui nasce il sole, Vincenzo è un ragazzo nato a Capolaterra, proprio lì sotto. Miss Italia è Marcella Mariani, è bellissima, ha già girato nove film, ha gli occhi verdi e avrà per sempre solo diciannove anni. A dire la verità questa è anche la storia di Luigino Rossi, ma a me l’ha prestata Vincenzo attraverso la voce del figlio Ruggero, e quindi spero per questo mi perdonerà se lui arriva dopo.
A Terminillo quell’anno l’inverno è ruvido e freddo. Come quel pomeriggio del 13 febbraio 1955 quando l’aereo con a bordo i suoi 29 passeggeri, tra cui Marcella, decollato da Bruxelles alle 17:17, scompare dal radar. Lo cercano nel lago di Bolsena, nel viterbese, in mare. L’ultimo contatto del pilota con la torre di controllo di Ciampino è alle 18:53, poi la comunicazione si interrompe bruscamente. Passano i giorni.
È il 21 febbraio e Vincenzo e Luigino sono sul monte, seduti al bar dell’Albergo Cavallino Bianco quando sentono alla radio che un caccia G 91 in perlustrazione sul Terminillo ha avvistato la sagoma dell’aereo. La zona è nota a quelli del posto come Valle Fracia, un avvallamento in cui si raccolgono le acque provenienti dalle creste. Ma in questa stagione c’è solo neve, e tanta. Vincenzo e Luigino conoscono la zona, ci vanno a fare legna e sono giovani, con tutto quello che questo comporta in fatto di incoscienza. Hanno vent’anni e agiscono d’impeto e si mettono in marcia in compagnia di un aviere della casermetta. Ora non immaginate vestiti in Gore Tex sgargianti e lamine affilate, ma solo lana, fustagno, sci e pelli di foca. Questo c’era. Gli sci di Vincenzo sono Lamborgini Zig Zag e Ruggero, mentre racconta, ancora maledice quello che glieli ha buttati via, che prima o poi gliela farà pagare. La forza nelle gambe ed i vent’anni possono molto: il passo è sostenuto, le discese veloci, ma la fatica è tanta. Tanta come la neve e il freddo, quel freddo che devi respirare col naso per riscaldare un po’ l’aria, che se respiri con la bocca graffia da fare male e gela i polmoni. Ma quando hai l’affanno, provaci tu. L’aviere ad un certo punto molla, si deve fermare. I due proseguono, anche Vincenzo è stanco e si attarda dietro al compagno, senza però mai perderlo di vista. Al crinale di Valle Fracia arriva per primo Luigino, la coda dell’aereo è alta a bandiera, si avvicina ancora, ma davanti a quello che vede si blocca, pochi istanti dopo Vincenzo è al suo fianco, immobile anche lui.
E’ tutto fermo e silenzioso, come i corpi. Quelli però sono congelati. Occhi aperti, occhi chiusi, posizioni diverse ma il terrore di quell’ultimo istante di vita è rimasto cristallizzato e spaventoso. Fissi in quell’istante destinato a restare per ognuno infinito. Non so se in quei minuti hanno visto, hanno riconosciuto Marcella. Di sicuro anche lei era fissa nel suo terrore. Forse ha pregato o forse ha rivolto l’ultimo pensiero ad un innamorato, forse alla famiglia. Quell’ultimo pensiero resta comunque anche lui fermo nel gelo, come i suoi diciannove anni. Il ritorno in paese è più lento e dominato da quel silenzio che li aveva presi sotto le creste e non li ha mollati più.
Per il recupero dei corpi sono necessari nove giorni. Al lavoro con barelle di fortuna ci sono uomini, ragazzi e anche qualche donna di Capolaterra, di Lisciano, qualcuno di Leonessa. La montagna è animata di curiosi, giornalisti e autorità impettite. Vincenzo e Luigino vengono intervistati e fotografati dalla Domenica del Corriere, che a Marcella e alla tragedia dedica la copertina illustrata da Walter Molino.

La foto è proprio questa, Luigino a sinistra e Vincenzo a destra. La triste notorietà di un momento per quei due giovani montanari. Quando lo Stato distribuisce le medaglie per il recupero sono in molti ad appuntarsela sul petto. Vincenzo e Luigino no.
Per raccontare questa storia qualcuno ha scritto anche una canzone, ma io non so cantare, quella è roba da genovesi, e allora io la scrivo: “L’apparecchio partito dal Belgio, sorvolava il cielo italiano, il pilota si perse la mano, ventinove persone moriron… Tra queste c’era la bella, la bella Marcella…”
9 agosto 2020
Io non so inventare storie, ma mi piace raccontarle.
È l’estate del 1940 ed uno studente al quinto anno di medicina torna al suo paese per trascorrere le vacanze estive. Si chiama Donato Cattani e solo dopo qualche ora viene nominato medico condotto da chi occupa già quel posto: “da oggi farai tu il medico, perché io non posso più venirci; abito lontano, sono anziano e stanco”. Così gli dice. Queste che a voi sembrano fantasie romanzate sono in realtà le memorie di quello studente, divenuto poi medico, raccolte con amore e dedizione, da sua moglie Gianna Federici Cattani nel libro “Un medico condotto”.
Passano i giorni e tra visite ad anziani e la cura di piccoli malanni arriva il 7 agosto, Donato viene chiamato d’urgenza perché poco dopo Grotti c’è una donna che non riesce a partorire. Sellata la cavalla il giovane si mette in viaggio, consapevole dell’atto improvvido che sta per compiere. Perché lui non solo l’esame di ostetricia non lo ha sostenuto, ma non ha ancora neanche frequentato le lezioni. Però non gli sembra il caso di deludere le aspettative di quella povera gente per quello che lui considera un piccolo dettaglio. Perché sono anni di guerra e ai dettagli non puoi dare conto. Arrivato sul posto trova una giovane donna alta, bionda e con un forte accento tedesco che passeggia su e giù per la cucina tenendosi con le mani l’enorme pancia. Ad attenderlo c’è anche l’ostetrica che lo scruta con aria interrogativa. Lo studente fa ricorso a tutte le sue conoscenze, ostenta sicurezza e invita la donna a seguirlo nella camera matrimoniale. La fa sedere sulla sponda del letto con il marito al suo fianco, lui si mette dall’altro lato con la levatrice che davanti, in ginocchio, è pronta ad accogliere il bambino. Nella sua testa doveva funzionare così. I due uomini poggiano delicatamente le braccia sulle spalle della donna mentre Donato dice ciò che gli sembra più giusto: “spingi!”. Bastano tre spinte per veder uscire un bambino grande e forte. Ha funzionato. Pesa 6 chili. Il 26 aprile del 1976 quel bambino sarebbe diventato mio padre.
Mio padre mi ha insegnato l’amore per la natura ed i segreti della caccia. Una cosa del ‘900, da Mario Rigoni Stern, che ho imparato a conoscere nei racconti che ogni mese pubblicava sulla rivista Diana, cui era abbonato e che conservava con cura. Una cosa del ‘900 che valla a spiegare alle anime belle dalle mani senza calli di questo secolo quasi nuovo e di silicio. Mio padre ha sempre parlato poco, ma ha provato ad insegnare con l’esempio. Da lui ho imparato tutto quello che so fare, avvitare, svitare, aggiustare. La storia e la geografia. A stare sempre dalla parte degli ultimi, e degli indiani. Purtroppo non ho imparato ad essere buono come lui. È così buono che nonostante tutto il mio impegno non sono riuscito a deluderlo. E questa è una cosa di cui non ti liberi. Mio padre è veramente una persona buona, la più buona che io abbia mai conosciuto. Di quella bontà assoluta e costante che può solo farti incazzare. Mio padre ha conosciuto il sacrificio ed il raggiungimento dei suoi sogni piccoli, ed è rimasto buono e umile. Mio padre ha conosciuto il dolore, la malattia e tre o quattro volte la morte. Ma è rimasto sempre buono e gentile. La seconda volta che ha incontrato la morte me lo ricordo steso nudo in un letto di rianimazione e privo di conoscenza, ma aveva il petto talmente largo e forte che io e lui sapevamo che non era finita lì. Sono passati più di una decina d’anni e oggi ne compie 80. Nonostante molti medici mi abbiano detto non so quante volte che era finita. Ma forse l’unico ad avere ragione è stato quel Donato Cattani ed il segreto è crederci e spingere.di anni fa.
Non siamo tipi da foto o selfie, questa infatti è la più recente ed è di un paio di anni fa.

Stavamo a Terminillo ed eravamo contenti.
16 agosto 2020
Io non so inventare storie, ma mi piace raccontarle.
Vivere la primavera a Roma quando hai vent’anni è quanto di meglio ti possa capitare. Ed io ho vent’anni, l’aspetto di un Kurt Cobain di paese, il cd taroccato dei Blur nelle cuffie e sto salendo sul motorino. Anzi sulla motorella come avrei detto allora. Sono circa le 9 e mezza e sono sotto casa in via Chiabrera, quartiere San Paolo, quando alzo gli occhi e vedo un elicottero. Ma non si muove, sembra immobile nel cielo pulito. Continua a starmi davanti mentre percorro l’Ostiense, è lì mentre costeggio la Piramide. Quando prendo con le ruote le buche più grandi il lettore cd nella borsa che porto a tracolla salta. È ancora fisso sul mio orizzonte dietro il Colosseo. Resta fermo e si fa sempre più grande. Mentre vado avanti noto che fa piccoli giri intorno ad un ristretto perimetro immaginario. Io sto andando in facoltà, a Sociologia, in via Salaria 113. È il 20 maggio 1999 e avvicinandomi capisco che è fermo proprio lì sopra. Tanta polizia insieme non l’avevo mai vista. Ma che abbiamo combinato? Il Collettivo deve aver messo su qualche casino, e ci sta che io non ne sappia niente, io non lo frequento, io frequento il 32 in via dei Volsci, molto meno intellettuale. Adesso mi dicono sia diventato un covo di fascisti, cominciavano ad avvicinarsi in quel periodo con il gruppo ultras dei Boys ed un certo Zappavigna. No stavolta non abbiamo fatto niente. È tutto più grande. Hanno sparato a Massimo D’Antona. D’Antona è un professore universitario, consulente del ministro del Lavoro Antonio Bassolino, governo D’Alema, e lavora al “Patto per l’occupazione e lo sviluppo”. Questa la motivazione della condanna a morte. La firma Brigate Rosse per la Costruzione del partito Comunista Combattente. Quando non c’è lezione vado a studiare in Facoltà e resto lì finché non chiudono tutto. Poi a cena alla mensa di Economia, non si mangia male, ti fanno pure la pizza e le ragazze a primavera sono belle. Imparo a conoscere tutto, il sesso e i quadri, gli eccessi e la bellezza. Il caffè al bar del compagno Vezio dietro Botteghe oscure, un confusionario e tenero museo del PCI, con le pareti piene di foto e chincaglieria. Mi guarda con gli occhi buoni mentre tremando per il Parkinson mi avvicina la tazzina. Tutto consumato con la stessa fame provinciale.
Massimo D’Antona abita in via Salaria e va a lavoro a piedi. Percorre il marciapiedi dal lato opposto di Sociologia. Ad un certo punto il passaggio si stringe, ci sono dei grandi vecchi cartelloni della pubblicità di ferro. Il posto ideale per un agguato infame. Il furgone in cui lo aspettano nascosti è parcheggiato poco prima del tabellone. Io lo ho notato quel furgone: un Nissan bianco con in vetri dietro oscurati dalla vernice dello stesso colore. Lo ho notato per un motivo semplice, quella è una zona di parcheggi a pagamento e nel raggio di qualche centinaio di metri non ci sono case abitate. Solo negozi ed uffici, con le macchine parcheggiate che cambiano in continuazione, dentro una e via l’altra. La sera poi ne restano ben poche. Quel furgone è lì da qualche giorno. Io lo ho notato. Io. E non riesco a scordare che lo ho notato. Quell’estremo rigurgito brigatista è costato la vita poco dopo anche a Marco Biagi. D’Antona girava a piedi, Biagi in bicicletta. E poi, sul treno Roma Firenze, al sovrintendente della PolIzia Ferroviaria Emanuele Petri. In quell’occasione muore il brigatista Mario Galesi e viene arrestata Nadia Desdemona Lioce, erano i due che avevano fatto fuoco in via Salaria. Ci sarebbe un’altra vittima, Bruno Fortunato, è rimasto ferito in quella sparatoria ma non muore per quello, si suicida qualche anno dopo. I suicidi non godono di buona stampa, così di lui non si parla mai.
Finivano gli anni 90. I miei anni 90. Io cerco qualcuno che mi ripari il motorino.

23 agosto 2020
Io non so inventare storie, ma mi piace raccontarle.
Questa settimana ne avevo in mente una per raccontare quello che è successo ad Amatrice ed in buona parte di Appennino alla fine dell’agosto 2016. Volevo farlo da un punto di vista diverso. Lo avrei fatto raccontare ad un cane, ma non un cane qualsiasi. Forse sarebbe stata una bella storia, ma non ce l’ho fatta. Ogni tanto bisogna stare zitti, anche con la penna. Forse prima o poi la scriverò. Chi legge sa che tra le parole vuole trovare qualcosa di tuo, o se non tuo di qualcun altro, che permetta di rivivere le esperienze belle ed esorcizzare quelle brutte. Ed in quel momento le tue parole hanno una piccola funzione. Me ne rendo conto, ma stavolta credo sia giusto dare spazio al pudore e al rispetto. E poi almeno in questo faccio un po’ come mi pare.
Quindi non ci sarà nessuna storia. Ma due righe sulla mia terra le scrivo uguale. La mia terra, anzi la nostra terra si chiama Appennino, e già che non sappiamo questo mi pare cosa grave. Siamo di Cantalice, di Civitella del Tronto, di Porretta Terme. Tanti paesi divisi in tante regioni e non ci accorgiamo di essere uguali. Un nome lo abbiamo, ma non lo usiamo. Non sappiamo neanche come ci chiamiamo, ma se ci incontriamo in uno dei nostri bar, che pure quelli sono tutti uguali con la cameriera con il culo all’insù, la scollatura aperta e piena ed il sorriso sincero e facciamo due chiacchiere capiamo tutto. Uno che paga da bere si trova sempre e ci troviamo a capire che il problema più grande che abbiamo è che la gente parte e non torna più. Che ormai non ci sono più i giovani e che sono proprio le loro mani, le loro teste, i loro libri e le loro motoseghe che ci servono. E serve pure una buona compagnia per quel tesoro della barista, che i vecchietti e pure il prete ci provano a fare il loro, ma mica vale. Che poi oggi che il mito della città è moribondo come quello delle grandi fabbriche che hanno creato insieme l’inurbamento ed il nostro spopolamento, capirlo dovrebbe essere pure più facile. Chissà se a Marina che sono sei mesi che è in smart working nel suo appartamento di 80 metri quadri a Roma, pagato con una promessa di 30 anni di vita, è venuto in mente che quel lavoro col nome così moderno lo poteva fare anche da casa della nonna a Genga, che è chiusa da trent’anni e forse viene giù. Che magari poi a Genga o a Turania, se l’idea viene ad una decina di giovani come Marina, si riapre l’asilo e poi vai tu a vedere come va a finire. Poi Roma, L’Aquila, Bologna o Pistoia per andare a vedere un film in 3d, una mostra, un concerto o bere un drink come cristo comanda non sono mica così lontane. Il lavoro oggi potrebbe tornare qui, anzi i lavori, tanti e diversi e riportare con loro un borsone di Francesco, Lucrezia, Maria, Giovanni, Vincenzo e pure qualcuno con un nome del cazzo tipo Loris, Samuel e Pamela.
Io sinceramente ho creduto che l’immane tragedia del terremoto avrebbe acceso la luce su queste terre. Gli anni passano e a volte ci credo meno.
Spero di tornare a raccontare una storia la settimana prossima, la penna è sempre carica, il resto a volte no.

Le foto le rubo, e lo so che non si fa, ma sono un peccatore impenitente. Questa la ho rubata perché magari a qualcuno viene voglia di leggere La leggenda dei monti naviganti di Paolo Rumiz. Oppure di vedere il film documentario Ritorno sui monti naviganti che sono proprio belli.
https://m.feltrinellieditore.it/opera/opera/la-leggenda-dei-monti-naviganti/
Ritorno sui Monti Naviganti
30 agosto 2020
Io non so inventare storie, ma mi piace raccontarle.
Henri De Toulouse Lautrec era uno che raccontava storie, e lo faceva dipingendo. Lo vogliono come uno storpio che guarda un mondo luminoso, fatto di seni giovani e gambe lunghe con famelica e triste cupidigia. Lo vogliono come il mostriciattolo che osserva la bellezza e le notti senza freni per poi tornare nella sua tana a dipingerlo. Io voglio raccontarlo come chi in quel mondo si è ricavato un suo spazio nonostante tutto. Ironico, divertente e divertito, confidente leale e rispettoso di prostitute. Lui che per i giudizi sommari tanto soffre non è mai giudice, ma sa consolare. Per un periodo vive in un bordello, la casa di rue Des Moulins. Amico e compagno di eccessi e di arte di cantanti, attori e ballerini. Un talento modernissimo ed una sete di vita che l’assenzio non spegne ma fa divampare.
Sì, è alto un metro e mezzo, con le gambe che arrivano appena a settanta centimetri, una condizione che gli consegnerà l’onore di una sindrome tutta sua: la sindrome di Toulouse-Lautrec. Ma è un bohémienne, veste elegante e non esce mai senza bastone da passeggio. Anche perché è cavo per contenere il mezzo litro di assenzio che non manca mai. Almeno fino a quando non inizia la notte. Euforia e depressione. Vette e abissi. Si fa fotografare vestito da pagliaccio e accende risse senza motivo. Tutto troppo veloce ma tremendamente vitale. Perché solo chi non è mai stato vivo non capisce quanta vitalità ci sia nella tristezza più profonda. E le donne, la carne e le ossa, il salato del sudore e l’odore forte. Che ogni volta è diverso e ogni volta affama di un altro ancora diverso e ancora ancora. Il furore di un corpo disgraziato e “la virtù meno apparente. Fra tutte le virtù la più indecente” citando De Andrè, che gli fece guadagnare il soprannome di cafetière. “Sempre e dovunque anche il brutto ha i suoi aspetti affascinanti; è eccitante scoprirli là dove nessuno prima li ha notati” diceva, e sesso e pittura erano la stessa cosa. E poi il sonno e la stanchezza, che non è mai abbastanza come il fumo nei polmoni. Alla parola irrequieto i più associano una accezione negativa, non capisco. Non capisco perché mai bisognerebbe essere quieti, magari quieti e rassegnati. Henri de Toulouse Lautrec non è quieto e non è rassegnato. Ricco e nobile di nascita, amato dal padre che gli consiglia l’amore per la natura e gli spazi aperti si immerge invece, per trovare respiro, negli scantinati di Montmartre. Con follia e delicatezza beve quel mondo e quelle persone così lontane dalle sue origini come l’unico veleno capace di allontanare i suoi dolori. E quel circo stabile gli regala tutto ciò di cui ha furiosamente bisogno. E la sifilide. E l’amicizia con Van Gogh fatta di scambi d’arte e debolezze ai tavoli dei bar. Toulouse debole nel fisico e Vincent debole nella mente. Amicizia che Toulouse ripaga come sa, con un ritratto.
Tanta vita tutta insieme però ti ammazza presto. A volte trentasei anni possono bastare e come un ragazzo che è uscito a fare un giro torna a Malromé, nel castello di famiglia, dalla madre. Henri Marie Raymond de Toulouse Lautrec Montfa si addormenta alle due e quindici del nove settembre millenovecentouno. La sua notte a Parigi è durata circa vent’anni, è il momento di riposare.

6 settembre 2020
Io non so inventare storie, ma mi piace raccontarle.
Umberto Toniolli è morto l’8 settembre del 1943, ma mica è vero. Però su un certificato di morte una data la devi mettere. Anche se in realtà non sai quando e neanche dove. Sempre a condizione che sia morto. Questa è una storia che inizia con “uno che ha tanto tempo e pure il lusso di sprecarlo” e che un giorno, senza un vero perché, decide di saperne di più di quel fratello di suo nonno che dalla guerra non è mai tornato. Non è facile crederlo, ma dal 1943 al 2018 nessuno si è chiesto troppo, perché noi Toniolli siamo gente semplice: arriva la cartolina e partiamo militari, ci dicono che siamo morti, e noi moriamo senza tanto questionare. Nel 1999 sono partito anche io, in tempo di pace guadagnata dagli avi e con agi ben differenti. La passione per le storie raccontate c’è sempre stata, e il pomeriggio che si è affiancato un dubbio, è arrivata la scoperta. Tutto in una schermata asettica: Toniolli Umberto 20/04/1913; data del Decesso/Dispersione: 08/09/1943; Luogo del Decesso: JUGOSLAVIA; Luogo di Sepoltura: sconosciuto. Troppe cose che non tornano anche per una famiglia che non si fa domande. Si può anche soprassedere sul fatto che la Jugoslavia non esista più da qualche decennio, ma che uno decida di morire o scomparire proprio l’8 settembre, senza neanche degnarsi di lasciare un indirizzo per mandare i fiori, è troppo pure per un Toniolli. Servono a poco le email spedite agli uffici preposti del Ministero della Difesa. Le risposte arrivano: nella prima un colonnello con la sua bella prosa asciutta e marziale mi invita a fare ricerche che ho già fatto, nell’altra un pari grado, ma con il cognome diverso, pur ringraziando della sensibilità dimostrata nei confronti dei “nostri Caduti” , 960 mila, aggiunge poco o niente. È servito invece un po’ di tempo, i pochi ricordi di famiglia e il supporto nella ricerca dell’amico e alpino Ruggero. Così sommando dettagli e deduzioni qualcosa riusciamo a scoprire.
Per cominciare siamo in Montenegro e quel giorno, più che una data destinata a finire sui libri di scuola, è un qualunque mercoledì di guerra. Almeno fino a quando al cospetto della Divisione Venezia della Fanteria di Montagna non si presentano dei tedeschi invitando i nostri a deporre le armi e consegnarsi prigionieri. Mi viene facile immaginare che l’offerta, a chi da qualche anno già combatte su quelle montagne, non sia sembrata del tutto convincente. Sono soldati italiani spediti lì per ordine del re, che nelle valli e montagne da cui vengono del capo del governo, se pure ha un mento importante e la voce forte, a loro interessa il giusto. Ma se il re ti dice di fare una cosa tu la fai, perché così ti è stato insegnato e ti fai poche domande. Non so se i modi usati dai tedeschi, ai quali gli italiani e in special modo i trentini da generazioni inviano piombo anche con un certo piacere, siano risultati una eccessiva forma di confidenza. Non so neanche se gli ufficiali si siano consultati con la truppa. Fatto sta che, in mancanza di ordini coronati, quei ragazzi hanno scelto di fare ciò che in famiglia hanno loro insegnato. Da sempre. E così hanno risposto “no grazie” rispettando l’usanza di sparare ai tedeschi. E Umberto è con loro. Le truppe del Fuhrer sicuramente gradiscono poco e con buona approssimazione il tiratore scelto Umberto Toniolli cade in battaglia non si sa quando, non si sa dove, centrato dai colpi di un nemico sconosciuto ma particolarmente dotato di mira o fortuna. Certamente se è morto è morto da militare italiano. Quei soldati finiscono per unirsi alla resistenza montenegrina, diventando la Divisione partigiana Garibaldi. Forse Umberto non è morto, ma ha continuato a combattere con loro e ha vinto e poi si è fatto una vita nei Balcani. Ma ci credo poco, a casa c’erano la famiglia e una ragazza magra e mora che lo aspettava. Il finale, quello vero non lo sapremo mai, ma una data di morte la devi mettere e in fondo 8 settembre 1943 è un bel giorno per morire. Forse.
A me, che ho sempre amato poco i luoghi comuni, questa storia qualche riflessione l’ha consegnata. Perché quando da sinistra si deride se non si osteggia apertamente il patriottismo bisognerebbe dire “calma, fermi un attimo”. Ed ecco ancora perché quando da destra ci si erge a soli difensori della patria bisognerebbe dire ugualmente “calma, fermi un attimo”. È tutto più complicato ma anche più semplice. E con umiltà, ora che siamo tutti fermi un attimo, dovremmo forse dire che del senso della patria in realtà non abbiamo capito molto. Se fossi appena un po’ più sensibile alla retorica direi che la patria non sta a sinistra o a destra, sta sopra. Ma io sono solo uno a cui piace raccontare storie.

13 settembre 2020
Io non so inventare storie, ma mi piace raccontarle.
Abebe Bikila ha vinto la maratona di Roma il 10 settembre 1960 correndo a piedi nudi. Oggi molti eventi sportivi vengono organizzati per vendere scarpe. Quella del ragazzo nero scalzo che nel buio di una Roma imperiale vince la gara più massacrante è un’ immagine potente capace attraversare gli anni. Ci vogliono quarantadue chilometri e centonovantacinque metri per scrivere una leggenda africana nella città più bella del mondo. Una leggenda degna di una canzone di Paolo Conte. Il nome di quel ragazzo magro e con le guance scavate è Bikila ma in Etiopia si usa nominare prima il cognome, quindi lo abbiamo sempre chiamato per cognome e nome, ma se al suo paese si usa così, a lui non sarà dispiaciuto. La volontà del destino sembra chiara e lo fa nascere a Jato, un villaggio a nove chilometri da Mendida nella regione degli Amara il 7 agosto del 1932, il giorno in cui si corre la maratona olimpica di Los Angeles. Ma tutta questa storia corre in equilibrio tra retorica e casualità e bisogna farci l’abitudine. È anche una storia breve come la vita di uno che muore a quarantuno anni. A Jato il padre di Abebe Bikila fa il pastore, lui invece è un agente di polizia, ma non uno dei tanti, perché appartiene al nucleo scelto della guardia personale dell’imperatore Hailé Selassié. È vincendo una gara organizzata tra gli appartenenti ai corpi di polizia ed esercito etiopi che viene notato dall’allenatore della squadra nazionale di atletica, il finlandese Onni Niskanen. A Roma però, alle Olimpiadi non avrebbe dovuto esserci, ma quando il destino ha deciso è difficile dissuaderlo e l’infortunio di un certo Wami Biratu, gli regala un biglietto per la Città Eterna.
Il percorso è studiato per mostrare al mondo intero che Roma si è rialzata dalle macerie della seconda guerra mondiale, maestosa come sempre e chissà che effetto ha fatto al giovane Abebe Bikila guardarsi intorno. Quello che sappiamo è che lui un paio di scarpe Adidas nuove di zecca le ha. Ma le trova scomode, è abituato a correre scalzo e ha paura che quelle calzature con tre strisce gli facciano venire le vesciche sotto ai piedi. E allora decide di partire scalzo. Qualcuno dice che è perché in quel modo sentiva la voce del suolo che gli parlava. Sicuramente asfalto, sampietrini e buche gli hanno detto molto quella sera. Abebe Bikila parte bene e dopo 25 chilometri è chiaro a tutti che quella ormai è una questione tra lui ed il marocchino Rhadi Ben Abdesselem, che prova in tutti i modi a staccarlo, ma il nome scritto sul quaderno del destino non è il suo e sull’Appia Antica mentre il sole comincia a scendere Bikila respinge tutti gli attacchi. È un uomo solo, quando con la maglia verde numero undici taglia il traguardo sotto l’Arco di Costantino illuminato dalle fiaccole. Il primo africano a vincere una medaglia d’oro olimpica è già un mito e quando i giornalisti gli si fanno addosso lui, non si sa da dove, tira fuori questa frase “Volevo che il mondo sapesse che il mio paese, l’Etiopia, ha sempre vinto con determinazione ed eroismo”. Facciamo tutte le congetture che vogliamo, ma la frase è questa e di determinazione Abebe Bikila ne deve tenere un po’ da parte per gli anni successivi.
Torna in patria accolto e festeggiato come un eroe ed il Negus Hailé Selassié dimostra la sua riconoscenza regalandogli un maggiolino Volkswagen. Quattro anni dopo si presenta all’Olimpiade di Tokyo, non è in gran forma ma vince lo stesso. È il primo a vincere due maratone olimpiche di fila. Stavolta indossa le scarpe. Partecipa anche nel 1968, ma si ritira prima dell’arrivo al traguardo.
Nel 1969 è alla guida del suo maggiolino vicino ad Addis Abeba quando in un terribile incidente, finisce in un fosso e rimane paralizzato dalla vita in giù. Non camminerà mai più, ma non smette di competere, tiro con l’arco, ping pong, e perfino una gara di corsa di slitte in Norvegia. Chissà che freddo. Il 25 ottobre 1973 arriva una emorragia celebrale e questa volta vince lei. Al funerale di questo ragazzo che ha lasciato per sempre la sua impronta su quei sampietrini dall’altra parte del mondo partecipano settantacinque mila persone e la famiglia imperiale.
È diventato un’icona capace di resistere sessant’anni e io mica lo so perché. E non lo so perché mi sono svegliato una domenica mattina presto, ancora col sapore di grappa in bocca, e pure giuro che avevo lavato i denti, ed in testa avevo Abebe Bikila. Era l’unica domenica che non avevo una storia. Forse è ancora Marrakech Express di Gabriele Salvatores che mi viene a salvare, come ormai mille volte. Stamattina forse era Giuseppe Cederna che mi strillava in testa “chi ti credi di essere, Abebe Bikila?” Forte Bikila.

20 settembre 2020
Io non so inventare storie, ma mi piace raccontarle.
Li vediamo camminare nelle nostre città, spesso a testa bassa sui loro passi. Forse a contarli, che poi non bastano mai. L’abito qualche volta sdrucito, qualche volta sgargiante. L’andatura a volte forzata, altre lenta. Sono giovani e vecchi e a chi li guarda sfugge il percorso. L’altro giorno osservavo uno di loro e mi sono chiesto: farà sempre lo stesso tragitto e sempre alla stessa ora, o forse semplicemente va? Passo dopo passo attratto da qualcosa o da qualcuno. Da un ricordo o da chi sa che. Noi li chiamiamo matti. Di qualcuno sappiamo la storia, o una storia che mezza è leggenda, o ancora ne conosciamo tante, ognuna diversa dall’altra. I matti camminano tanto.
Volevo raccontare la storia di uno di loro. Una storia che conosco. Ma le vite fragili non vanno maneggiate. E io li capisco forse un po’. Perché quando i pensieri si fanno ossessivi e ti premono forte sul petto se cammini, se cammini tanto da sfiancarti, sembra che quel peso un poco molli la presa. E cammini senza una meta apparente, con vicoli, strade, piazze, negozi e facce, che se alzi la testa, sembrano alleggerire i pensieri. I matti camminano. Quasi mai si fermano a parlare con qualcuno e noi quasi mai li salutiamo. E forse a loro e a noi va bene così. Forse essere una presenza che però sembra passare inosservata è quello che vogliono. Meglio che sentirsi scrutati per essere ancora una volta definiti, etichettati. Che poi quell’etichetta stessa è quella che ti fa e ti fa rimanere matto. Lo chiamano stigma.
Ogni città, ogni quartiere, ogni paese ha bisogno del suo matto e tu puntuale lo trovi, come il campanile della chiesa. Ad alcuni vogliamo bene, anche se dovremmo volerlo a tutti. Qualche volta ci fanno paura. Girano per le strade e noi li incontriamo e ci dovrebbero ricordare quanto sia importante la felicità, l’anima sgombra e leggera.
Voluti da dio li chiama nonno Kuzja in Educazione Siberiana di Nicolai Lilin. E dice che “la gente li chiama matti, pazzi, anormali, solo perché non capisce quello che pensano e che dicono. Ma la loro lingua è la lingua di Dio, per questo noi li chiamiamo voluti da Dio. E dobbiamo rispettarli tutti, a nessuno è permesso toccarli neanche con un dito ed è a noi che spetta proteggerli anche a costo della nostra vita”. Anche gli indiani d’America rispettavano e proteggevano i matti, riconoscendo il loro contatto con gli dei.
Io non so se credo in qualcosa che possa essere chiamato dio, ma questa sacralità in qualche mio piccolo modo la sento. Se un dio è qualcosa che non si può vedere e toccare forse loro lo possono vedere, toccare e parlarci. Loro sì, mi appaiono sacerdoti. Forse è un modo per dare senso al dolore. E se io volessi una religione allora questa dovrebbe cercare un senso al dolore. E forse è il senso profondo di tutte. Perché stare male è uno schifo e non fa bene a niente, eppure un senso deve averlo. Ma adesso non dobbiamo farci tristi e non dobbiamo farlo adesso né mai. Forse questo vogliono dirci quando ridono per niente. E noi non lo capiamo.
La foto è dell’archivio del Manicomio di Rieti
11 ottobre 2020
Io non so inventare storie, ma mi piace raccontarle.
Il giudizio è sempre universale. Assoluto ed insieme superficiale. Condanna o assoluzione. Giuseppe Gulotta è stato condannato all’ergastolo ed è stato assolto per non aver commesso il fatto. È stato colpevole ed è stato innocente. È stato carnefice ed è stato vittima. Due facce di una stessa medaglia che, testa o croce, possono però cambiare il destino. In mezzo gli anni dal 1976 al 2012. Contateli lentamente: uno, due, tre, quattro, cinque, sei, contateli tutti lentamente, fino a 36.
E’ la sera del 27 gennaio 1976 quando qualcuno apre con la fiamma ossidrica il portone della caserma dei Carabinieri di Alcamo Marina, entra e fa fuoco uccidendo nel sonno due carabinieri: Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta. Carmine 19 anni, Salvatore 35. La mattina passa lì davanti l’auto del segretario del Movimento Sociale Italiano Giorgio Almirante, gli agenti di scorta vedono la porta forzata e danno l’allarme.
Scattano immediatamente le indagini: siamo nel 1976 e siamo in Sicilia, la fantasia è una virtù non richiesta e le piste possibili sono due, o terrorismo rosso o mafia. Almeno un colpevole serve sempre e così arriva la notte dell’11 febbraio con un normale posto di blocco: lo fermano. Patente e libretto: si chiama Giuseppe Vesco, guida un’auto rubata ed ha con se una Beretta trafugata dalla caserma di Alcamo Marina. Ma in una storia come questa un colpevole solo non basta, e per far uscire fuori altri colpevoli serve un interrogatorio. Ne incontreremo altri di interrogatori ma da questo devono uscire dei nomi e dei complici ed arrivano: Giovanni Mandalà, Gaetano Santangelo, Vincenzo Ferrantelli e Giuseppe Gullotta. Giuseppe quello di prima, quello che è stato colpevole e innocente. E Giuseppe e gli altri diventano colpevoli perché anche a loro tocca un interrogatorio. Cioè possiamo chiamarlo interrogatorio, ma come sapremo molti anni dopo e molti giorni dopo, contati uno ad uno, possiamo anche affermare che Giuseppe fu costretto a ingerire enormi quantitativi di acqua e sale infilati giù per la gola con un imbuto, mentre era schiacciato fra due piani di legno. E così ha detto che era stato lui. Che era stato anche lui. Fatto sta che Giuseppe ha scontato 22 anni di carcere, Mandalà è morto dopo anni di galera nel 1998, Santangelo e Ferrantelli, invece, si sono rifugiati in Brasile, dove hanno ottenuto lo status di rifugiati. Una storia che se la guardavi con gli occhi giusti non filava da subito, e quelli di Peppino Impastato erano occhi giusti, e che qualcosa non andava lo aveva capito. Purtroppo la fine di Peppino è ben nota e la cartella dove conservava i documenti sui fatti di Alcamo è stata sequestrata dai Carabinieri a casa di sua madre Felicia. E nessuno l’ha vista più. Ancora più tardi Walter Veltroni, membro della Commissione Antimafia ha sostenuto che dietro la strage di Alcamo Marina ci fossero militi di Gladio collusi con la mafia. Ma intanto Giuseppe Gulotta era ancora in galera, sempre in galera e adesso diceva che lui era innocente. Che lui in quella caserma non c’era. Lo ha detto e sicuramente lo ha anche urlato fino a perdere il fiato, fino al 13 febbraio 2012. Anni lunghi e giorni lunghissimi da contare uno ad uno, lentamente. Che provaci tu a restare in piedi. Dall’ergastolo alla scarcerazione. Da assassino a innocente.
Se anche Dio sono oltre duemila anni che rinvia il giorno del giudizio sembra chiaro che sia proprio un lavoraccio. Un giudizio solleva e compiace un animo semplice. Indicare un colpevole, come assolversi, allontana dalle responsabilità vere e profonde, inebriando di un piacere effimero. Una condanna è spesso una via di fuga dalla realtà.

25 ottobre 2020
Io non so inventare storie, ma mi piace raccontarle.
Quella di Pietro Mennea è una storia di riscatto e ribellione.
Il pregiudizio ed il destino sono brutte bestie ed è difficile criticare chi decida di lasciarli fare il loro sporco lavoro. Ma Pietro Mennea da Barletta scelse che non era il caso e corse veloce e prese quattro lauree. Corse veloce come se non pesasse poco più di sessantacinque chili e prese quattro lauree come non fosse figlio di un sarto e di una casalinga, in un sud Italia che ancora combatteva contro le epidemie di colera e che riempiva i treni per raggiungere il sogno di una vita da operaio nel nord.
Pietro inizia a correre da bambino e lo fa sfidando le auto sportive che passavano in paese. E contro le Alfa Romeo e le Porsche rombanti sui cinquanta metri vinceva sempre. Pietro Mennea nella vita come in pista partiva da dietro, poi però pestava sulle gambe e finiva avanti a tutti. L’impressione era quella non di una corsa contro gli altri, ma di una corsa a superare se stesso. A superare il destino e lasciarselo dietro. E solo qualche istante dopo l’arrivo, ma solo per pochi istanti, quel volto serio si apriva in un sorriso umile di bambino. Per poi tornare alla serietà e alla fatica. Serietà e fatica come una via per la redenzione e come lezione da lasciare, una lezione impartita col sudore e la fatica oltre il limite della fatica. È facendo così che Pietro vince e stabilisce record che costringono i marziani muscolosi di oggi ancora a rincorrere lui, mingherlino. Lui che dopo l’arrivo non metteva in scena coreografie trionfanti, ma si schiudeva in un fugace sorriso umile da bambino. Ma quando aveva sfinito le gambe, le braccia e tutto il corpo allora sfidava la mente. Studiava senza sosta e senza pietà e senza scuse per se stesso. E alla fine come coppe e medaglie arrivano le lauree, studente come gli altri e senza concessioni: ISEF, Giurisprudenza, Scienze Politiche e Lettere.
Essere irrequieto è una dannazione, una condanna e anche l’unica premessa per la ribellione. La ricerca senza risparmio e senza sosta è l’unica e tremenda via per raggiungere un obiettivo, che sia la vittoria o che sia la felicità. E i conati di vomito devi metterli in conto. E mille sconfitte e ancora mille devi metterle in conto. E che poi, nella maggior parte dei casi, non vincerai e non sarai felice devi metterlo in conto. Altrimenti lasciati domare, stai fermo e buono. Non aspirare a niente che non sia respirare, un divano ed uno schermo. Fallo, rinuncia e non credere che per questo ci sia un giudizio in particolare. Che i giudizi non valgono niente e sarai giudicato comunque, che tu ci provi o no. Che tu lotti o no. Scrivo di Mennea, di trionfi, lauree e sento l’ipocrisia. Io non ce la faccio, io non ci credo che esista una via per la salvezza. Io credo che ci dovrebbe essere concesso di vincere e perdere. E che ci dovrebbe essere anche concesso di non partecipare. Che ci siano rese eroiche e vittorie vili. Non ce la faccio, odio la retorica della vittoria e quella della sconfitta. Odio la retorica. Odio la ragione e odio il torto. Odio la buona strada e odio la cattiva strada. Per questo non scriverò della sua carriera politica, né tantomeno della sua morte. Ma Mennea all’arrivo delle Olimpiadi di Mosca non è retorica. Gli ultimi passi sono forza pura, rabbia e ribellione. Poi il sorriso umile di bambino e poi ancora serio quando con orgoglio, rabbia e ribellione dice “un ragazzo del sud senza pista oggi è riuscito a fare il record del mondo”. Non è retorica, è orgoglio, rabbia e ribellione.
8 novembre 2020
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Io non so inventare storie, ma mi piace raccontarle.
Del caldo non mi importa tanto. Ma il sole mi serve, quel sole che mi arriva scostumato fino alle ossa e aiuta il mio umore un po’ grigio e pensoso ad uscire dalla nebbia e p
rendere inaspettatatamente colore. Io, sono certo da sempre, non me ne accorgo, ma mi succede che mi ritrovo all’improvviso diverso, in sandali, con una svagatezza sconosciuta per il resto dell’anno. Me ne accorgo dall’ironia con cui guardo le cose, come ora guardo questa sigaretta e ancora dietro la tazzina del caffè. Sono solo in casa in mutande e sandali a pensare a te distesa in spiaggia bella e discinta e guardata e scrutata e desiderata. Comunque lontana. E la scena che mi figuro mi fa sorridere di me, di come mi riduce e mi fa vedere un mondo distorto quel qualcosa che succede quando un uomo sente la mancanza di una donna. Proprio come io ora sento la mancanza di te. Il fischio di un aereo nel silenzio della città semi abbandonata mi distoglie finalmente dall’imbarazzo per questi miei pensieri figli di un pomeriggio come gli altri, interminabile e tedioso. Per un attimo mi convinco: adesso esco, vado alla stazione, prendo il primo treno e ti raggiungo, solo con i sandali e due pacchetti di Marlboro. Ti faccio una sorpresa, cosa che odio io quanto te. Ma conosco la mia determinazione, dura il tempo esatto tra un pensiero ed un altro e va via. E io lo so. E infatti è sparita già, adesso, mentre penso ad altri tempi lunghi e caldi custoditi nella memoria, proprio sotto i miei capelli scombinati. Mi ritrovo alto un metro a correre dietro al pallone in calzoncini, con la polvere che si alza ed il portone della chiesa sullo sfondo. Un momento come tanti di quelle interminabili stagioni estive da studente delle elementari, o forse delle medie. Finita la partita mi attardavo appositamente. Sarebbe uscito fuori il prete nella sua tonaca nera e spessa, che chissà che caldo che sentiva, ci saremmo seduti sui gradini e avremmo fatto due chiacchiere. Ricordo distintamente la scena, ma cosa avranno poi avuto da dirsi un ragazzino di dieci anni e un prete. Forse passavamo solo un po’ di quel tempo dilatato. Che adesso non passa. Questo pensiero sta finendo e nello spazio rimasto vuoto tornano a infilarsi il treno, la stazione… meglio uscire in giardino e lasciarlo in cucina, sul lavello accanto alla tazzina del caffè. Banale a dirsi, questo rettangolo di terra fatto di sassolini, un albero e qualche pianta adesso sembra un francobollo, e quando ero bambino invece era una giungla africana dove strusciando sul ventre col fido fucile in mano, tra pericoli indicibili cacciavo leoni, bufali e gazzelle. Farei lo stesso ora imbracciando un manico di scopa, ma alzo lo sguardo e spariscono le belve feroci e al loro posto c’è la signora Lina nella sua vestaglia che annaffia i fiori sul tuo balcone. Dannata che sei, torni sempre a portarmi via, anche dal mio safari e mi riporti, dannata due volte, a quella stazione e a quel treno, che sai, che so, che non prenderò. E che tanto nei pensieri va solo a marcia indietro.
E anche questa non la ho inventata, è una storia che se ci pensi la conosci bene, in un cassetto ce l’hai sicuramente. È una storia scritta da Vito Pallavicini nel 1968 e cantata da Adriano Celentano. La leggenda vuole sia nata a Finale Ligure poco dopo la mezzanotte, sulla terrazza dei Bagni Elios. Per me è sempre stata La Canzone Popolare. Il vero inno nazionale forse. Insuperata nella sua apparentemente leggera forma letteraria. La musica è una marcetta, come un inno deve essere, scritta da un certo Paolo Conte da Asti, che poi ebbe a dire “Nessuno scriveva marcette. Io lo feci per ragioni poetiche. Secondo me la marcetta è radicata nel profondo del nostro cuore”. La canti o fischi mentre lavori con le mani o cammini preso dai tuoi pensieri. Leggeri e pesanti come è la vita e come è Azzurro. Azzurro è come un lecca lecca o un giro in bicicletta, quando sei triste se non risolve ci va vicino.
Azzurro, il pomeriggio è troppo azzurro e lungo per me…
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Io non so inventare storie, ma mi piace raccontarle.
Dalla sua piazza continua a guardare lontano, a guidare e proteggere i destini della classe operaia. Ma non siamo in Unione Sovietica, in quella terra ingrata che ha fatto di Leningrado una qualunque San Pietroburgo. Siamo a Cavriago, in Emilia, dove il busto di Lenin sta in piazza Lenin, che il tempo, se proprio deve, vada a passare altrove. Tiene la posizione dal 19 aprile 1970.
Ma la straordinaria storia di Lenin a Cavriago inizia molto prima, il 6 gennaio 1918. Il fumo saturava l’aria ed in una composta eppure concitata riunione del circolo del Partito Socialista Italiano del paese si confrontavano la corrente riformista di Cesare Arduini e quella massimalista dei bolscevichi Domenico Cavecchi e Domenico Bonilauri. La storia difficilmente sbaglia la mira e naturalmente prevale la mozione bolscevica. Una riunione non è una riunione se non si conclude con un documento, ed in quello stilato il 6 gennaio 1918 viene espresso sostegno alla linea editoriale del giornale socialista Avanti! ed al suo direttore Giacinto Menotti Serrati “per l’incessante lotta che continuamente combattono per il trionfo dell’intransigenza assoluta e di approvazione del programma degli spartachisti tedeschi e del Soviet di Russia plaudendo il suo capo Lenin per l’instancabile opera che sostiene contro i reazionari sostenitori dell’imperialismo”.
Non fa una piega pensarono Cavecchi e Bonilauri mentre all’osteria brindavano alla battaglia vinta oggi e a quelle di domani. Quello che non potevano sapere era che il documento, spedito alla sede romana del partito e al giornale sarebbe stato pubblicato nell’edizione nazionale. Un orgoglio per la sezione. Ma che una copia del giornale sarebbe finita in Russia proprio tra le mani ossute di Vladimir Il’ic Ul’janov, Lenin per i compagni, non avrebbero proprio potuto mai immaginarlo.
Leningrado è ingiustamente separata da Cavriago da 2715 chilometri di pessime strade, eppure non solo Lenin lesse il giornale e lesse proprio quell’articolo, ma ne rimase tanto colpito da prenderne nota. La storia non sbaglia la mira e appare chiaro anche a Mosca il 6 marzo 1919, durante il primo congresso della Terza Internazionale Comunista. Lenin è sul palco rialzato quando si rivolge ai delegati con voce stentorea «Compagni, si tenta di isolarci dal resto del mondo in modo tale che noi riceviamo i giornali socialisti degli altri Paesi come una grande rarità. Come una rarità ci è pervenuto un numero del giornale socialista Avanti!. Vi leggo una corrispondenza sulla vita del partito da una località chiamata Cavriago – un piccolo paese, evidentemente, perché non si trova sulla carta geografica – e vedo che gli operai, dopo essersi riuniti, hanno approvato una risoluzione in cui si esprime simpatia al giornale per la sua intransigenza e dichiara di approvare gli spartachisti tedeschi. Ebbene, quando leggiamo una tale risoluzione di una qualsiasi sperduta Pošechon’e italiana, possiamo dire a buon diritto che le masse italiane sono per noi, che le masse italiane hanno capito cosa sono i socialisti russi.» Da Cavriago il messaggio era arrivato forte e chiaro a Mosca, in piazza Staraja 4, 2813 chilometri di pessime strade: la via è segnata, il proletariato è con voi.
Il legame è oramai stretto e Cavriago non può restare insensibile di fronte alla tremenda carestia che, con fare chiaramente controrivoluzionario, tenta di indebolire il popolo dell’Unione Sovietica, ed allora il consiglio comunale delibera, «Accogliendo l’invocazione di dolore e di fame che i fratelli della Russia lanciano al mondo troppo estraneo alla grande sventura, interpretando nel soccorso oltre all’aiuto materiale, la morale assistenza, l’incoraggiamento al Governo proletario sovietista delibera di elargire un sussidio non inferiore a £ 500.» Era il 6 settembre 1921.
In Emilia i fascisti avevano già iniziato le loro scorribande e solo pochi mesi dopo il consiglio comunale di Cavriago dovette dimettersi. Il 6 agosto 1922 il prefetto di Reggio Emilia nominò il commissario Ugo Verlicchi. Era arrivato il fascismo, ma la storia non sbaglia la mira e Cavriago 23 anni dopo torna comunista. Come deve essere.
Nel 1970 l’Unione Sovietica è sotto la guida di Leonid Il’ič Brežnev. E non dimentica Cavriago, e Cavriago non dimentica Lenin. In occasione del centenario della nascita i comunisti emiliani gli dedicano una piazza ed i comunisti russi inviano un busto. Un busto in bronzo realizzato nel 1922 dagli operai della città ucraina di Vorošilovgrad e collocato originariamente di fronte alla fabbrica statale di locomotive a vapore. Anche il busto di strada ne fa tanta. Il 22 luglio 1942 venne trafugato dalla Milizia fascista durante la campagna italiana di Russia e portato in Italia come ricordo di guerra. Alla fine della seconda guerra mondiale, venne ritrovato in Toscana e restituito all’ambasciatore sovietico a Roma.
Il 19 aprile 1970 finalmente inizia a guardare lontano e a guidare e proteggere i destini della classe operaia da piazza Lenin a Cavriago.
Il primo aprile 1995, in una Italia dove spopolavano le statue della Madonna che lacrimavano, dagli occhi del busto del padre della rivoluzione sono fuoriuscite lacrime. Bianche. L’evento soprannaturale, da alcuni venne superficialmente visto come opera di buontemponi locali.
Piaccia o no in Italia si è vissuta l’epopea politica, sociale e personale per molti, del più grande partito comunista d’Occidente. Per quasi un secolo è stata offerto a quegli italiani che ne sentivano il bisogno qualcosa in cui credere e sperare. Dalla sua piazza continua a guardare lontano, a guidare e proteggere i destini della classe operaia. Mio fratello, come Lenin, è figlio unico “perché è convinto che esistono ancora gli sfruttati, malpagati e frustrati”. E ti amo Mario Oh oh oh oh…
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29 novembre 2020
Io non so inventare storie, ma mi piace raccontarle.
Christophe è volato giù. Era nel posto sbagliato, non era nel suo posto.
Una volta aveva detto “la vita è ben fatta. Nei drammi che tu vivi, quando decidi di andare a cercare le cose le raggiungi. Quando non vuoi più cercarle, sei finito”. E ancora “se fossi stato felice non avrei giocato a rugby. Se non avessi avuto un tale desiderio di vendetta, una tale aggressività, un tale desiderio di esistere, probabilmente non avrei fatto tutto questo”. Ma Christophe era nel posto sbagliato, ed è volato giù.
Un campo da rugby è il posto perfetto per cercare una redenzione. I problemi ti piombano addosso veloci e violenti. Vogliono impedirti di correre e lo fanno in tutti i modi; non lasciarglielo fare dipende solo dalla tua determinazione. Non conta quanto siano grossi, conta quanto forte sia la tua voglia di andare avanti. Più la tua voglia è disperata e più funziona. Altre volte devi bloccarli. Non farli passare è tutto quello che devi, e a volte funziona. E quando passi o quando li fermi ti senti vivo in un modo speciale, un modo che puoi provare a raccontare, ma mica ci riesci. Quello che ti viene addosso non ha un volto, non è un altro. Nel massimo esempio di sport di squadra sei solo e contemporaneamente sei insieme a fratelli che sono pronti e determinati quanto te a fare di tutto perchè tu superi quel problema, o quell’altro non entri nella tua vita, non arrivando dove vuole. Nella vita fuori da quel rettangolo col lato lungo di 144 metri e quello corto di 70 mica è sempre così, è tutto più difficile. Non ti sembra che la tua determinazione basti, quando sei solo, sei solo e basta. Il sostegno può arrivare o no. In campo, se hai scelto i compagni giusti, il sostegno arriva sempre e lo sai, e lo senti forte dietro le spalle. Spingono le tue stesse gambe e vai avanti e lo sai che andrai avanti fino all’ultimo respiro. Quello che ti piomba addosso lo rispetti e non lo fai per una supposta superiorità morale, che sai di non avere. Lo rispetti perchè sai che ti può fare male quando vuole, esattamente come puoi fare tu. Ma nessuno si vuole fare male, tutti vogliamo solo andare avanti. Se ti fai male non è colpa tua, né sua. Ti fai male perchè nonostante tutto può succedere, e se succede lo accetti cercando di dagli il minor peso possibile. Non puoi starci troppo a pensare, devi riprendere prima possibile a cercare di andare avanti. E se ti fermi steso a terra a lamentarti non vai da nessuna parte. Così ti alzi, sposti un attimo il paradenti per prendere aria e riparti. In quel rettangolo col lato lungo di 144 metri e quello corto di 70 è tutto semplice. Fai la cosa giusta e non lo sai neanche tu perchè. Fuori non è così, non è così per niente. Resti fermo lì e sei immobile, paralizzato e lo sai che non è la cosa giusta, ma lo fai.
Il mio nome è Christophe Dominici sono alto un metro e 72 e peso 80 chili, ho partecipato a 3 campionati del mondo e ho vinto 5 campionati ed una coppa di Francia, sempre con la maglia dello Stade Francais. Il mio nome è Christophe Dominici sono un rugbista e ho un’ombra nera che mi rincorre l’anima, ero nel posto sbagliato e sono volato giù. Non ho vinto e non ho perso, vado in un posto che non è dentro al campo e non è fuori. La meta è altrove.
28 dicembre 2020
Io non so inventare storie, ma mi piace raccontarle.
Questa è la storia dei sette fratelli Cervi, di un trattore e di un mappamondo. I fascisti avevano paura del trattore e del mappamondo. Non potendo uccidere il trattore ed il mappamondo hanno ucciso i sette fratelli.
Avevano paura del trattore e del mappamondo perché sapevano che i padroni che servivano, dal trattore e dal mappamondo sarebbero stati inesorabilmente sconfitti. Quando una condizione sociale vantaggiosa si fonda e mantiene solo su una nascita fortunata, l’unico modo che si ha per mantenere il privilegio è tentare di fermare l’innovazione e la cultura. Che per loro natura rendono liberi e che non è possibile ereditare da mamma e papà.
Alcide Cervi, papà Cervi, affittò il suo podere di 20 ettari nel 1934. E già questo era difficile da tollerare per chi grazie a latifondo e mezzadria riproduceva, senza valore, la propria ricchezza. Ma questi diavoli di Cervi erano comunisti di quelli veri, con una innata fame di progresso, e allora comprarono il trattore ed ampliarono la stalla. Il mappamondo se lo fece regalare Aldo Cervi dal rivenditore. Per vedere e poi insegnare come fosse fatto il mondo lontano da quella loro grande pianura tutta uguale. Nel casale dei Cervi c’erano libri, tanti libri. Quando mai si erano visti braccianti armeggiare con i libri? Che era naturale poi, con gli uomini già in galera e in casa solo donne e bambini cercare di farli sparire col fuoco. E invece molti, testardi, sono rimasti. I libri sulle tecniche più moderne dell’allevamento dei suini di Gelindo e poi quelli sull’agronomia, l’apicoltura e l’enologia. Quelli li leggeva di più Ferdinando. Ma il frutto del loro lavoro lo dividevano con i compagni partigiani, e allora avevano un distillatore che si erano fatti da soli, il fogòn d’la grâpa, per mandare su da bere, e una scremadòra per mandare in montagna il burro.
L’idea di fermare il progresso con le pallottole si concretizzò il 28 dicembre 1943. Gelindo, Antenore, Aldo, Ferdinando, Agostino, Ovidio ed Ettore furono presi nella notte tra il 24 ed il 25 novembre dello stesso anno e sia chiaro: c’era una guerra civile in corso e loro la combattevano armati. Quindi nessuno stupore. Sapevano di uccidere e poter essere uccisi. Poca retorica. Ma resta la paura dei fascisti per un trattore ed un mappamondo, che restano ancora oggi come spauracchio all’ingresso del casale dei Cervi che è ancora in piena salute ed è un museo. Chissà se i fascisti hanno ancora paura.
Io non so inventare storie, ma mi piace raccontarle.
Scrivere poesie quando sei nudo, denutrito, infreddolito e chiuso in una cella con le pareti letteralmente ricoperte di escrementi.
Bobby Sands lo ha fatto, su pezzetti di carta igienica, su quello che trovava e come poteva.
La poesia, che ammiro non avendola, è qualcosa che io non so.
Penso alla poesia in quel carcere e capisco ancora meno come si fa.
La risposta, forse, la scrive proprio Bobby e inizia dicendo che c’è qualcosa nel profondo di ogni uomo e alla fine lo dice cos’è, anche a me che non capisco e non ce l’ho: è un pensiero imperterrito. E’ un pensiero che non si piega quello che ti permette di volare, come un’allodola diceva lui, quando sembra impossibile. E quando vedi e pensi e provi a sentire questo capisci quanto è stupida la parola impossibile. Che usiamo noi, piccoli, perchè non abbiamo capito niente. Sempre, mai e tutte le parole che puzzano di assoluto sono il primo piombo che impedisce il volo. Prendile e buttale via.
Per vivere, che assurdo però, serve una fede, una certezza.
E’ proprio quella fede, quell’unico assoluto che rende tutto possibile e porta via tutti gli altri.
Una fede ci vuole.
Bisogna credere in qualcosa e non credere che sia roba da eroi.
Ne puoi cercare anche una piccola, e non avere paura che sembri stupida, tanto non la devi confessare a nessuno. Che se lo fai, non funziona più. Una fede vera e profonda, di quelle che ti tengono in piedi, non la devi per forza dire. Anche le fedi grandi poi, nascono da episodi se vuoi piccoli.
La fede di Bobby nasce da ragazzino, da piccoli soprusi. Quando vedrà i morti per strada, l’insopportabile prepotenza del forte sul debole, la sua convinzione era già formata.
Così a te, a noi, non serve una grande battaglia da combattere. E’ un alibi che tenta, senza riuscirci, di mascherare la nostra inedia. Basta non essere indifferenti. Basta sentire. Se senti trovi la tua fede. E se la trovi tienila lì e custodiscila. E’ lei che ti terrà vivo. Dolorante e bestemmiante ma vivo.
Se poi il carnale bisogno di essere vivo non lo senti, allora lascia stare. Tutto quello questo non ti riguarda. Questa non è roba da eroi, ma da gente che vuole essere viva sì.
There’s an inner thing in every man,
Do you know this thing my friend?
It has withstood the blows of a million years,
And will do so to the end.
It was born when time did not exist,
And it grew up out of life,
It cut down evil’s strangling vines,
Like a slashing searing knife.
It lit fires when fires were not,
And burnt the mind of man,
Tempering leadened hearts to steel,
From the time that time began.
It wept by the waters of Babylon,
And when all men were a loss,
It screeched in writhing agony,
And it hung bleeding from the Cross.
It died in Rome by lion and sword,
And in defiant cruel array,
When the deathly word was ‘Spartacus’
Along the Appian Way.
It marched with Wat the Tyler’s poor,
And frightened lord and king,
And it was emblazoned in their deathly stare,
As e’er a living thing.
It smiled in holy innocence,
Before conquistadors of old,
So meek and tame and unaware,
Of the deathly power of gold.
It burst forth through pitiful Paris streets,
And stormed the old Bastille,
And marched upon the serpent’s head,
And crushed it ‘neath its heel.
It died in blood on Buffalo Plains,
And starved by moons of rain,
Its heart was buried in Wounded Knee,
But it will come to rise again.
It screamed aloud by Kerry lakes,
As it was knelt upon the ground,
And it died in great defiance,
As they coldly shot it down.
It is found in every light of hope,
It knows no bounds nor space
It has risen in red and black and white,
It is there in every race.
It lies in the hearts of heroes dead,
It screams in tyrants’ eyes,
It has reached the peak of mountains high,
It comes searing ‘cross the skies.
It lights the dark of this prison cell,
It thunders forth its might,
It is ‘the undauntable thought’, my friend,
That thought that says ‘I’m right!’
Robert Gerard Sands, detto Bobby
(irl. Roibeard Gearóid Ó Seachnasaigh; Belfast, 9 marzo 1954 – Lisburn, 5 maggio 1981)
“Ero soltanto un ragazzo della working class proveniente da un ghetto nazionalista, ma è la repressione che crea lo spirito rivoluzionario della libertà. Io non mi fermerò fino a quando non realizzerò la liberazione del mio paese, fino a che l’Irlanda non diventerà una, sovrana, indipendente, repubblica socialista”.
a domenica prossima…